Il Museo Lapidario "Bruzza"

 
Testo e note tratte dal III Capitolo del volume:

Giovanni Sommo

Corrispondenze archeologiche vercellesi.

Documenti per una lettura storica e territoriale delle collezioni archeologiche locali del Museo C. Leone, 1994

INDICE

Capitolo III

Dal Lapidario al Museo

La formazione del Lapidario "Bruzza"

Lo schema espositivo

Fortuna delle istituzioni bruzziane

L'allestimento del Museo Leone

Per una lettura storica dei materiali

Note

Vai ai capitoli I e II

 

CAPITOLO III

 

Dal Lapidario al Museo. [torna all'indice]

Con apposita delibera unanime il Consiglio Comunale del 19 giugno 1875 conferiva al P. D. Luigi Bruzza la cittadinanza vercellese, faceva coniare una medaglia commemorativa offrendone al Bruzza un esemplare aureo, decideva "di raccogliere in un Museo, da istituirsi nel chiostro di S. Andrea, i cimelii lapidei della storia e delle vicende dell'agro vercellese: e di ricordare, con una iscrizione marmorea da collocarsi nel nuovo museo, che il pensiero della sua istituzione è dovuto all'illustratore delle iscrizioni antiche vercellesi" 1. La commossa lettera di ringraziamento del Bruzza 2 non tradisce in alcun modo che egli fosse a conoscenza di quanto si stava preparando, ma è indubbio che l'invio del volume ai consiglieri avesse lo scopo di caldeggiare il progetto e che vi fossero a Vercelli, oltre al buon Caccianotti, vari personaggi influenti dalla sua parte. La prima sistemazione che il Bruzza aveva dato ai monumenti epigrafici di proprietà municipale risaliva al 1842; non si trattava che di una loro collocazione provvisoria nel cortile della sede comunale, onde evitarne la dispersione 3. Molti e importanti documenti epigrafici erano conservati da enti religiosi, in Seminario e in Arcivescovado, ragguardevole era la raccolta patrizia sistemata nell'atrio di palazzo Gattinara, della quale resta ancora oggi in sito l'arco d'ingresso dell'antica chiesa di S. Maria Maggiore, collocato nel giardino, alcune epigrafi erano infine in casa Mella e nello stesso giardino del palazzo dei Barnabiti. Ma la maggior parte dei monumenti si trovava dispersa in città e nelle campagne, dove, i sarcofagi, soprattutto provenienti dalla necropoli del duomo, erano comunemente adibiti ad uso di abbeveratoi. Il Bruzza nel suo volume aveva dato precise indicazioni circa la localizzazione di ogni epigrafe e sulla base dei suoi dati il Comune di Vercelli avrebbe potuto provvedere, con una certa facilità, al loro recupero. Si sarebbe trattato comunque di un compito complesso e costoso, che avrebbe impegnato il Comune per alcuni anni.

 

La formazione del Lapidario Bruzza. [torna all'indice]

Dalla lettera del Caccianotti al Bruzza del 17 luglio 1865 4 apprendiamo come in quell'anno l'allora sindaco Marchetti avesse fatto trasportare nella ex chiesa di S. Marco alcuni dei sarcofagi raccolti dal Bruzza nel cortile municipale, affinché servissero nuovamente da abbeveratoi per i cavalli del reggimento, che vi erano provvisoriamente ospitati. Questo episodio, scherzosamente riferito dal Caccianotti, costituisce un'interessante testimonianza di quanto fosse labile l'impegno comunale nella conservazione delle antichità e come esso dipendesse sostanzialmente dalla sensibilità e preparazione culturale degli amministratori, più che dall'espressione dell'opinione pubblica, praticamente insensibile, fatte le debite eccezioni. Non sappiamo quando i sarcofagi tornarono alla loro sede e se vi fu chi deplorò l'iniziativa, ma certamente tornarono. Era quindi condizione necessaria che a sostenere l'impegno civico nell'allestimento del Lapidario vi fossero amministratori illuminati ed una certa disponibilità di fondi. Fortunatamente ebbero funzione di sindaco in quegli anni, fra gli altri, Luigi Verga e Demetrio Ara, che seppero condurre con decisione, specie quest'ultimo, la realizzazione del Museo, la cui sistemazione in tempi relativamente brevi si deve soprattutto all'opera appassionata dell'avvocato Francesco Marocchino, archivista del Comune incaricato degli atti amministrativi necessari. Già nel 1877 "mercè la generosità e il ben sentito amor di patria di alcuni concittadini" si era a buon punto, soprattutto dopo la donazione, da parte del marchese Mercurino Arborio di Gattinara, della cospicua collezione epigrafica radunata dal genitore, conte Dionigi Arborio di Gattinara, che si univa a quanto già raccolto, in dono o in deposito 5. Nell'estate dello stesso anno il P. Bruzza, come si è ricordato, fece un breve soggiorno a Vercelli e concordò con l'architetto Locarni, incaricato dal Comune e dall'apposita commissione, l'assetto che si sarebbe dato al Museo. L'attività di raccolta tuttavia proseguì ancora, pazientemente, ed è documentata con esiti alterni, sino al 1883. Nel dicembre 1880 la commissione che era stata nominata dal Comune con uno stanziamento di lire 500, venne sciolta e sostituita, ad effetto dell'istituzione della nuova "Commissione Archeologica Municipale", che ebbe, come si vedrà, compiti più ampi e ambiziosi. Lo stato dell'allestimento a quella data era precario, in quanto si dovevano ancora tinteggiare le pareti, riordinare i marmi e colorire le lettere delle iscrizioni 6. Inoltre, e ciò si deve forse alla poca competenza del Marocchino, erano stati trasportati nel chiostro di S. Andrea, a quanto risulta da una relazione del Locarni, "marmi, mosaici e bassorilievi, che avranno forse qualche merito, ma non entrano certo fra gli oggetti e nel tempo dal Bruzza designati e stabiliti per conservare al museo stesso una qualche unità di aspetto e di scopo". Questo problema era stato, del resto, evidenziato dalla visita del Fabretti al Lapidario, che ne aveva scritto al Bruzza lamentando la presenza di oggetti estranei all'arco cronologico stabilito 7. Indubbiamente la realizzazione dell'allestimento, portata avanti con buona volontà proprio dal Marocchino, risentiva dell'assenza di una persona veramente competente, che vi si dedicasse a tempo pieno. Ancora nel 1881 una lettera uscita nelle colonne del giornale "La Sesia" attesta che l'ordinamento era stato effettuato, le pareti tinteggiate e le lettere delle iscrizioni ripassate con vernice rossa. Purtroppo era stato commesso un errore, riportando con la vernice l'errata lezione, completa di lettere non più esistenti, di un'epigrafe funeraria pubblicata dal Bruzza (LXXXV) e corretta successivamente dallo stesso autore nelle "correzioni e aggiunte" al suo volume del 1874. I "vandalismi degni del Marocco" evocati dalla severa lettera al giornale, il cui mittente non venne dichiarato, rivelano che ad essere chiamato in causa era lo sfortunato archivista Francesco Marocchino. Lo stesso Leone, in una lettera al Perosa, da questi edita nel suo "Bulgaro", ricordava l'episodio degli umboni di scudo di Borgovercelli, scambiati per elmetti dal Marocchino 8 e più volte, nella medesima lettera, il notaio sottolineava, ma solo con accenni fra le righe, la poca competenza dell'archivista e la scarsa qualità ed entità degli oggetti da lui radunati per il Municipio. Sicuramente, tuttavia, non si trattò mai di un problema personale e Leone fu sempre molto delicato e conciliante nei confronti dell'avvocato-archeologo. Appare probabile, quindi, che da un lato Leone si ponesse in un atteggiamento concorrenziale nei riguardi delle istituzioni museali municipali, possedendo personalmente una collezione archeologica, ma anche epigrafica, di notevole livello, e che fosse, d'altro canto, sostanzialmente contrariato per non essere candidato dal Comune a svolgere un ruolo nella formazione delle collezioni civiche, pur avendone in qualche modo titolo. Le corrispondenze Leone-Bruzza sottolineano in certi casi il conflitto di competenze, riguardo a possibili acquisti, fra il ricco "collezionista" privato e l'istituzione pubblica povera di mezzi, situazioni che il P. Bruzza tentò di controllare lodando comunque il fatto che, chiunque li acquistasse, gli oggetti rimanessero in città e inviando reperti archeologici romani "da collezione" sia al Leone che al Marocchino. Sarebbe certamente da approfondire tale aspetto della personalità del notaio Leone, così come va annotato il fatto che a Vercelli nei primi decenni del secolo vi furono contemporaneamente il Lapidario, la "vetrina" dell'Archivio, quale nucleo di raccolta archeologica civica non allestita, e il Museo Leone, di carattere privato, contenente, fra le molte raccolte, una collezione archeologica della quale pure facevano parte molti oggetti, soprattutto bolli di anfore e vasi, descritti dal Bruzza. Una situazione di contrapposizione e sovrapposizione, questa, che certamente trova radici in una valutazione negativa da parte del Leone sulla qualità dell'iniziativa conservativa civica e anche nell'improvvida esclusione del suo personale apporto a tale impresa, sicuramente non voluta dal Bruzza, ma determinata da miopi scelte municipali. Queste considerazioni, che si basano su di una supposta incomprensione, fin dagli inizi, fra Leone e Comune di Vercelli, rendono facilmente spiegabile il fatto che questi abbia preferito, nel lasciare alla città le proprie collezioni, affidarle alla gestione dell'Istituto di Belle Arti, essendo egli ben consapevole dell'insufficiente attenzione che avrebbero avuto dall'amministrazione civica, la quale infatti, dopo i primi entusiasmi, stava già abbandonando a se stessa la propria notevole raccolta epigrafica. Tuttavia Camillo Leone non fu del tutto dimenticato dal Comune. In qualità di esperto infatti, nel 1900 venne chiamato dal sindaco Giuseppe Locarni ad eseguire il riordino definitivo del Museo Lapidario, dove le anfore erano state spostate e si trovavano in disordine, marmi e bassorilievi -probabilmente quei frammenti di epoca più recente a suo tempo contestati- erano ancora "gettati alla rinfusa" e dove i ragazzini col gesso avevano deturpato molti dei monumenti esposti, usando la colonna miliare girevole come giostra. Erano state da poco donate al Museo tredici anfore, fra le molte scoperte alla fornace Sandri 9, e Camillo Leone fu incaricato di sistemarle con le altre, fino ad allora appoggiate ai muri e riposte nei sarcofagi. Con l'occasione gli si domandò di far risistemare tutto quanto fosse fuori posto. Leone fece appendere le anfore, con appositi sostegni, alle pareti meridionale e orientale del chiostro e affiggere nella parete settentrionale le epigrafi e i bassorilievi medievali, chiese inoltre che si istituisse una sorveglianza ad evitare gli scarabocchi degli scolari e domandò pure, in una lunga lettera al giornale locale 10, che si seguisse l'esempio di altre città italiane, nelle quali il museo era affidato a un "Ispettore governativo degli scavi e monumenti", che a Vercelli già esisteva, avendo però solo l'incarico della manutenzione del S. Andrea e non del Museo. "Museo Bruzza, ripetiamolo sottovoce, ché a formare un vero museo degno del Bruzza [...] ci vorrebbe ben altro", scriveva Leone in quella lettera. Solo con l'ordinamento del Leone, terminato nel luglio del 1901 11, il Lapidario assunse l'aspetto definitivo, documentato dai cataloghi del 1904 e del 1924 12. Camillo Leone, nella sua lettera a "La Sesia", esprimeva già, quindi, forti e motivate critiche, pure lodando la buona volontà del Marocchino e il risultato del suo lavoro; auspicava che si proseguisse nell'attenzione ai ritrovamenti archeologici per l'incremento del Museo, deplorandone l'abbandono e le carenze. Nella formazione del Lapidario abbiamo quindi due fasi, la prima, terminata nel 1881, con la sistemazione, diretta da Locarni, delle opere murarie per i basamenti dei sarcofagi e la ricostruzione dell'ambone, la tinteggiatura e l'evidenziazione delle lettere; la seconda, terminata nel 1901, con le rifiniture, la sospensione delle anfore, il riordino e l'allestimento dei monumenti medievali e moderni, diretta da Leone. Successivamente il Museo Bruzza conservò, sino al suo disallestimento, tale aspetto.

Schema espositivo del Museo Lapidario nel chiostro di S. Andrea

 

Lo schema espositivo. [torna all'indice]

Il chiostro di S. Andrea, a pianta quadrata, misura circa 35 metri di lato lungo le pareti esterne, per un totale di circa 140 metri di fronte espositivo, tenuto conto delle interruzioni dovute ai vari ingressi e dei nicchioni, prodotti lungo il lato meridionale dai contrafforti delle navate, che ne ampliano il perimetro complessivo utile. Lo schema espositivo fu certamente adattato a questa particolarità, sfruttando la pianta delle nicchie per la sistemazione dei sarcofagi, appoggiati ad un supporto in muratura che li elevava di una quarantina di centimetri. Nell'androne di ingresso fu collocata la lapide che ricordava la nascita del Museo e il suo ispiratore, ora al museo Leone con il busto del Bruzza dello scultore Porzio, che era allora al centro del chiostro, sistemato a giardino all'italiana. Altri busti di cittadini benemeriti vennero più tardi aggiunti agli angoli del chiostro per salvarli dai vandalismi, creando una "protomoteca" 13. Parte della parete a destra dell'ingresso, sul lato occidentale, dove era collocata, coricata ed imperniata la colonna miliaria, e tutto il lato meridionale, con la prima parte del lato orientale, furono occupati dalle iscrizioni antiche, affisse sopra e ai lati dei sarcofagi e alle pareti delle nicchie, insieme alle anfore che vi fece sospendere Leone, anche molto in alto per carenza di spazio. Le iscrizioni cristiane con i bassorilievi e una struttura semicircolare in muratura, che proponeva una ricostruzione dell'ambone di S. Maria Maggiore, erano collocate presso l'angolo fra i lati orientale e settentrionale. Lungo il lato settentrionale e su parte del lato occidentale erano infine allineati i frammenti medievali e moderni che vi fece ordinare Camillo Leone. Di questo allestimento in qualche modo definitivo, che sicuramente doveva presentare ampi spazi per nuovi apporti, non abbiamo che pochissimi documenti fotografici, riferibili, almeno i più chiari, al primo decennio del Novecento, fortunatamente conservati nel ricchissimo archivio iconografico Borgogna. Sono visibili, in prospettiva, gran parte del lato meridionale, uno scorcio dell'angolo fra questo e il lato orientale e dell'angolo con l'ambone e i bassorilievi, situato fra i lati orientale e settentrionale. Nessuna lastra, sfortunatamente, presenta i materiali di fronte e in primo piano e non sono mai visibili i lati settentrionale e occidentale. Alcune lastre mostrano poi il centro del chiostro ed alcuni degli angoli. Dall'insieme di queste poche immagini, che qui vengono riproposte, e con la lettura del catalogo che Cesare Faccio approntò pochi anni dopo la definitiva sistemazione 14, è possibile avere un'idea sufficientemente chiara dell'unica istituzione museale civica vercellese, ispirata a modelli di cultura settecentesca 15, la cui breve esistenza si esaurirà nell'arco di un sessantennio a cavallo fra i due secoli. Il disallestimento, in vista anche dei restauri del complesso monumentale che furono diretti dal Verzone, avvenne nel 1934, senza che si abbia notizia dell'esecuzione di una documentazione grafica e fotografica più accurata del Lapidario. In quegli anni andava infatti maturando, ad opera di una grande personalità della cultura piemontese quale fu Vittorio Viale, un progetto di "Grande Museo" vercellese, che avrebbe realizzato la direzione unica e l'accorpamento razionale delle collezioni civiche e di quelle Leone e Borgogna 16.

 

Fortuna delle Iscrizioni bruzziane. [torna all'indice]

Gli scritti pubblicati a Vercelli dal P. Bruzza negli anni del suo soggiorno in città contenevano un progetto di studio e le indicazioni per la tutela e la promozione delle risorse culturali vercellesi. Esplicitamente il barnabita aveva auspicato, oltre alla formazione del Museo Lapidario, l'istituzione della Pinacoteca e aveva attivamente partecipato con vari altri cittadini, fra cui il Caccianotti, alla costituzione della Biblioteca Civica, che si doveva affiancare ad uno dei più importanti archivi comunali dell'Italia settentrionale 17. L'archivio, insieme con i tesori e i documenti della Chiesa vercellese, costituisce tuttora forse la parte meno nota e più ingente del patrimonio storico ed artistico vercellese. La concezione che il Bruzza ebbe della salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali aveva in primo piano, nei suoi progetti, la fruizione al pubblico e, quale centro propulsore delle istituzioni preposte, la municipalità, seguendo un modello ben sperimentato in Italia dal XVIII secolo e passato attraverso il filtro delle iniziative di tutela promosse dalla cultura liberale piemontese con le riforme di Carlo Alberto. Tutte le sue proposte vennero condivise dalla parte più illuminata del notabilato locale, che annoverava uomini di cultura estremamente vitali come Mella, Mandelli e Locarni e personaggi minori, ma di solida statura, come i notai Ara e Leone e il mecenate-archeologo Caccianotti. La sfida e la proposta furono quindi raccolte e tradotte in azione politica, non potendo cadere su terreno più fertile, in una città che desiderava crescere materialmente e culturalmente per riscattare il proprio ruolo di capoluogo, emarginato dalla nuova politica post-unitaria del Regno 18. La Biblioteca e la Pinacoteca vennero realizzate già negli anni Sessanta, non senza l'intervento diretto, i lasciti e gli sforzi di alcune delle personalità ricordate 19. Il nuovo museo, in allestimento, ebbe impulso e nuovi contenuti con la creazione di una "Commissione Archeologica Municipale", istituzione d'avanguardia per quei tempi, che, nonostante la sfortuna nelle ricerche che promosse, resta tuttora quale esempio altissimo di consapevole interesse municipale nella gestione del patrimonio archeologico 20. In seguito, però, difficoltà soprattutto di ordine economico, che si manifestarono subito come determinanti, e classi politiche meno sensibili alle esigenze di crescita culturale, e forse più attente ai bisogni e ai problemi della società che si affacciava agli inizi del Novecento, resero il grande progetto bruzziano uno scomodo retaggio del secolo trascorso. La Pinacoteca, emanata da un Istituto di Belle Arti dotato di solide basi economiche e culturali, proseguì e fu accresciuta accresciuta da mirabili interventi di recupero, per poi confluire nelle raccolte private Borgogna 21, presso la sede del museo omonimo. La Biblioteca, strumento di cultura indispensabile, fu continuata, dopo che il suo primo bibliotecario senza stipendio, Caccianotti, ne lasciò, sia pure indirettamente, l'eredità a Cesare Faccio, e tuttora sopravvive senza un adeguata valorizzazione, con l'immenso archivio comunale antico. Il Lapidario infine, come si è constatato, non superò la fase statica dell'ordinamento Leone e nessuna delle richieste del notaio trovò accoglimento. L'idea di Museo Archeologico, da affiancarsi al Lapidario, rimase confinata alle poche vetrine dell'Archivio, ordinate dal diligente Marocchino, e la "Commissione", dopo le sue infruttuose e costose campagne di scavo, divenne organo puramente consultivo e cessò di esistere, lasciando pochissime tracce di sé 22. Solo le istituzioni basate su stabili fortune economiche, quindi quelle di carattere privato, si perpetuarono e soppiantarono e supplirono quelle municipali, attraverso un lento, progressivo, e tuttora in atto, processo di disimpegno e di disattenzione municipale dal fronte della tutela del ricco e vasto patrimonio culturale cittadino. Nell'istituzione del Lapidario Bruzza e della "Commissione" si trovano, ancora oggi, i momenti di più alto e diretto interesse conservativo municipale, funzione ora nuovamente e comodamente demandata, ma per i semplici obblighi di legge, alle cure degli estranei e lontani ambienti burocratici torinesi. L'assenza di politica culturale fa rimpiangere il mancato innesco di gran parte del "progetto" bruzziano per Vercelli, tuttora valido, occorre dirlo, nelle sue linee fondamentali resta valido. Un momento di grande progettualità culturale tornò, tuttavia, a vivacizzare brevemente la città quando, finalmente riacquistato il ruolo di capoluogo nel 1926, dopo averlo perduto nel 1861, Vercelli tentò di dimostrarsene degna 23.

L'allestimento del Museo Leone. [torna all'indice]

Alla morte del notaio Leone, nel 1907, le sue eclettiche collezioni giungevano alla ragguardevole entità di circa ventimila oggetti, che furono provvisoriamente ordinati, dall'allora presidente dell'Istituto di Belle Arti Federico Arborio Mella, in alcune sale del palazzo Langosco per una parziale apertura al pubblico nel 1910, in occasione del XIII Congresso storico subalpino, e successivamente per una regolare esposizione a partire dall'inaugurazione del 1912 24. Le raccolte archeologiche Leone comprendevano allora, oltre ai materiali locali, soprattutto fittili e bronzi, molti oggetti di scavo provenienti dalla Magna Grecia, qualcuno di origine laziale donato dal P. Bruzza, una notevole raccolta numismatica incompleta e non pochi oggetti preistorici dell'area centro-settentrionale. Non si trattava che di una piccola parte delle molte altre raccolte, fra le quali quella di ceramiche precolombiane acquistate dai Ravelli, le ceramiche medievali e rinascimentali, locali e di provenienza antiquariale, le collezioni di maioliche, di vetri, di armi, di costumi, di gioielli, di legature, di avori, di bronzetti, ferri battuti e metalli vari. Nel 1913 moltissimi oggetti di proprietà comunale, fra i quali tutti quelli archeologici contenuti nella vetrina dell'Archivio Civico, passarono al Leone. Nel 1931 il giovane Vittorio Viale, dopo aver avuto dall'allora presidente dell'Istituto di Belle Arti , Carlo Verzone, la cura del riordino delle collezioni Leone, venne incaricato della direzione dei musei Leone e Borgogna, che egli riplasmerà in un nuovo unico sistema museale, scomponendo e specializzando, con un criterio astorico certo oggi non più accettabile, funzioni e finalità espositive di ciascun contenitore. Nel 1934, restaurato palazzo Alciati, adiacente a palazzo Langosco, si creano gli spazi per una nuova collocazione dei materiali epigrafici del Museo Bruzza, che andranno a raggiungere gli oggetti della vetrina civica, le collezioni archeologiche Leone e alcuni reperti egizi del Borgogna in una sezione antiquaria del nuovo Museo, riservando le sale di palazzo Langosco alle rimanenti raccolte Leone 25. Si realizzava così una sorta di museo archeologico vercellese, ma arricchito in sequenza cronologica da materiali antichi di ben diversa provenienza, che privilegiava l'effetto espositivo didascalico e antiquariale, mettendo da parte definitivamente l'unitarietà di provenienza topografica che aveva caratterizzato il Lapidario. Dalla totalità dei materiali archeologici locali conservati sortiva così un discorso di tipo sostanzialmente ancora tassonomico e collezionistico, destinato ad avere una organica valenza di "pubblica edificazione", alla quale univa, posti in secondo piano, obiettivi di astratta e approssimata documentazione territoriale. Con tale primo sconvolgente riordino si rimescolavano le collezioni "storiche", variamente originate. Nell'allestimento unitario, infatti, esse in gran parte perdevano per sempre le loro singole identità e peculiari connotazioni, oggi difficilmente ricostruibili nella loro interezza e, comunque, non senza un notevole lavoro di minuta documentazione sulle fonti, sulle schede e su vari e spesso laconici inventari. Sembra forse oggi imperdonabile la mancata attestazione dei contesti originari e di un allestimento come quello del Lapidario, ma occorre tener conto dei tempi e dell'insensibilità che essi manifestarono, anche in altri campi, circa la storicità. Ancora attualmente, un profondo iato sussiste fra l'esigenza di una storicizzazione e di una mappatura delle raccolte archeologiche locali, che non sono leggibili ad un normale visitatore, e ciò che viene esposto con un criterio ed un allestimento ormai in sé conchiuso e "storico". Una evidente contraddizione che non rende giustizia alle collezioni, né permette di comprendere gran parte delle valenze dei materiali conservati. Nel 1934 venivano inaugurate le nuove sale di casa Alciati e Vittorio Viale pubblicava una guida dei musei vercellesi, nella quale erano riassunte le linee fondamentali di una vasta opera di catalogazione delle collezioni, che non si compirà poi se non in parte e che solo oggi infine si sta approntando 26. Un'ultima occasione, per dare maggiore spazio e luce alle raccolte archeologiche e rendere omogenea la sistemazione dei due contenitori fu quella della mostra "Vercelli e la sua provincia dalla romanità al fascismo" 27, allestita in gran fretta nel 1939 per la visita del Duce a Vercelli. Una nuova ala, congiungente casa Alciati a palazzo Langosco, venne realizzata in tempi brevissimi su progetto del Cavallari Murat, permettendo di svolgere un unico percorso espositivo al coperto. Molte delle scenografie e degli allestimenti "didattici" legati alla mostra furono successivamente mantenuti nel definitivo ordinamento, facendo sì che alcune parti del Museo C. Leone, la "sala romana" soprattutto, ne fossero permanentemente caratterizzate e assumessero nel tempo tali valenze per la museografia italiana, da impedirne oggi qualsiasi manomissione o aggiornamento. Contenitore e contenuto formano quindi un'unico oggetto di tutela, in cui si sono cristallizzate le testimonianze archeologiche civiche insieme con le collezioni Leone e il cui aggiornamento è ora affidato, più che a impossibili riordini, riallestimenti e nuovi apporti, a una lettura storica, tipologica e topografica dei materiali esposti. La progressione delle vetrine e delle sale, la collocazione dei monumenti epigrafici e dei materiali archeologici, volute da Viale, tentano di rispecchiare una scansione cronologica fra elementi di provenienze diverse e di raggruppare, in modo il più possibile logico, i materiali per tipologie; da una Preistoria e Protostoria di ambito territoriale estraneo al Vercellese si passa ad una Protostoria ed all'epoca romana locali, rischiando di restituire, in visitatori occasionali e disattenti alle didascalie, immagini confuse e fuorvianti. Tuttavia si sarebbe difficilmente riusciti a far meglio con la complessità di materiali e con gli spazi disponibili all'interno di una "mostra", necessariamente di rappresentanza, che voleva ripercorrere storia, successi, glorie militari e tecnologiche della nuova Provincia, oltreché la ricchezza del collezionismo vercellese. Con tali condizionamenti nasce anche la sistemazione tuttora vigente dei materiali epigrafici, spesso murati o collocati in angustie tali da renderne impossibile o molto scomoda una completa fruizione, soprattutto per gli "addetti ai lavori". Anche le soluzioni utilizzate per anfore e sarcofagi, sistemati in un cortiletto ed appese ad altezze irraggiungibili, sarebbero forse attualmente da rimeditare e gli inconvenienti rimediabili, senza nulla alterare dei vincoli allestitivi. Per quanto attiene, infine, alle valenze topografiche e storiche dei materiali, come si è già detto l'allestimento attuale non è affatto generoso, mentre è prodigo di aspetti scenografici; a tale carenza di contenuti e, per contro, al fascino forte, ma datato, è forse da addebitare lo scarso interesse suscitato dalla visita ai meno provveduti. Una serie di oggetti, accomunati solamente dall'essere antichi e tipologicamente affini, allineati su di un ripiano, non è ormai più in grado di sortire, infatti, alcun effetto di "pubblica edificazione", se non a livello molto superficiale. Sarebbe assai più producente, per una reale fruibilità, un'unica testimonianza, non necessariamente di intrinseco valore, circondata da tutte le notizie storiche, topografiche, tecnologiche e contestuali che la coinvolgono.

Per una lettura storica dei materiali. [torna all'indice]

In questa direzione si intendeva procedere con la piccola mostra che, nelle stesse sale del museo, fu allestita nel 1984, in occasione delle celebrazioni del centenario bruzziano, sulla base di una mia prima valutazione complessiva delle attestazioni scritte, ora qui raccolte insieme ad altre. L'accostamento realizzato allora fra le fonti archivistiche in originale e i materiali che vi erano descritti rese concretamente, con esempi di immediata comprensione, lo spessore storico e i legami con il territorio che ogni oggetto porta con sé, rivalutandone, al di là di ogni considerazione estetica, di qualità o rarità, il significato di documento per la storia del territorio e della cultura che ne aveva curato la conservazione. Sotto questo profilo la limitata esposizione ebbe riscontri lusinghieri, sia da parte dei visitatori che degli specialisti, e questa strada, ne sono convinto, resta l'unica percorribile, con la redazione di cataloghi aggiornati, per una reale rivitalizzazione delle collezioni archeologiche locali esposte nelle sale del museo. Quando e se, nei prossimi decenni, Vercelli sarà sede di un Museo Archeologico Nazionale, la quantità e la qualità degli oggetti delle raccolte archeologiche e dei dati disponibili che coinvolgono la città e il suo antico territorio potranno essere tali da consentire, così come già il P. Bruzza aveva preconizzato, di ristabilire la reale importanza del centro nell'Antichità. Allora soltanto potrà essere interamente compresa la portata del percorso storico che le collezioni archeologiche ottocentesche sottendono, collegandole direttamente alla nuova realtà museale e culturale della città. In tale processo si vorrebbe collocare questo primo lavoro complessivo di raccolta e di analisi dei documenti e delle corrispondenze superstiti, che, così come la mostra, intende esclusivamente aprire una strada, segnare un possibile itinerario di approfondimento, riunendo materiali e scritti per una loro nuova lettura. Storia della cultura e del collezionismo locale, territorio e patrimonio archeologico, confluiti nelle sale del museo Leone, possono essere quindi rivisitati con maggiore attenzione e valutati nel loro reale spessore, attraverso lo strumento e il filtro dei dati d'archivio. L'opera di Luigi Bruzza, come si vede, è ancora oggi densa di conseguenze per la cultura vercellese.

 

 

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NOTE

 

1. Atti del Consiglio Comunale di Vercelli (Sommo 1982, p. 174).

2. Documento n. 50, in questo stesso volume.

3. Se ne è già parlato al cap. I.

4. Documento n. 23, in questo stesso volume.

5. Atti del Consiglio Comunale di Vercelli. Conto morale anno 1877 (Sommo 1982, p. 179). Gran parte delle corrispondenze comunali riguardanti il Lapidario è conservata ed è più oltre pubblicata.

6. Atti del Consiglio Comunale di Vercelli, 15.12.1880 (Sommo 1982, p. 182).

7. Lettera del Fabretti del settembre 1879, documento n. 163, in questo stesso volume.

8. Perosa 1889, p. 409.

9. Sommo 1982, p. 100 e ill. alle pp. 113-114.

10. "La Sesia" 5 e 7 luglio 1901.

11. Si veda la lettera del Leone al Locarni del luglio 1901, Sommo 1982, p. 185.

12. Faccio 1903; Faccio 1924. Si veda anche la lettera di Cesare Faccio al Sindaco del 23 giugno 1904, Sommo 1982, p. 1

13. Il busto del Bruzza, dello scultore Francesco Porzio, venne inaugurato il 1 feb-

braio 1885; nel luglio dello stesso anno lo raggiunsero i busti del Caccianotti, di Bernardino Larghi, Luigi Verga e Felice Monaco. Successivamente furono riparati nel chiostro i busti di Stefano Eugenio Stara e Luigi Guala (Faccio 1903, pp. 25-26).

14. Catalogo ordinato dal Comune di Vercelli, per dar modo di vigilare sulla conservazione dei singoli monumenti e per servire di guida agli studiosi nella visita al Lapidario (Faccio 1904, p. 4).

15. Il "modello" classico, non solo per il lapidario vercellese, era, ancora ai tempi

del Bruzza, il museo Maffeiano di Verona, allestito intorno al 1730 in un grandioso porticato dorico, sistemazione tuttora conservata nel recente riordino (Museo Maffeiano 1982).

16 . La razionalizzazione delle strutture museali vercellesi, realizzata solo in parte con alcuni passaggi di materiali, avrebbe dovuto compiersi nel 1971 mediante un regolamento in grado di attivare, con la presenza di personale direttivo e scientifico, una struttura modernamente impegnata nella catalogazione e nello studio e proiettata nell'attività di tutela sul territorio. Nelle sue dimensioni e nei suoi obiettivi, il progetto, rimasto, haimé, tale, è tuttora di grande attualità per l'impostazione di una politica museale locale, che minaccerebbe di emancipare la seconda città d'arte del Piemonte dalle attuali ferree egemonie politico-burocratiche torinesi (Sommo 1982, p. 337).

17. L'istituzione della Biblioteca Civica si deve all'attività del Bruzza, che, con Sereno Caccianotti e con l'allora sindaco Luigi Verga, diede inizio nel 1860, tramite una circolare indirizzata alle più cospicue famiglie cittadine, alla formazione del suo primo nucleo. Caccianotti, che lasciò tutti i suoi libri alla città, ebbe l'incarico di Bibliotecario, svolto gratuitamente fino alla morte, occupandosi anche del riordino delle carte dell'Archivio (Sommo 1982, p. 68). La Biblioteca venne aperta al pubblico nel novembre del 1875, e già contava 7.000 volumi (Ordano 1984, p. 30).

18. La legge Rattazzi del 1859 modificò le circoscrizioni del Regno, declassando Vercelli a capoluogo di Circondario dipendente dalla Provincia di Novara. La città tornò ad essere sede di amministrazione provinciale solo nel 1927 (Ingrao Scaccioni 1984). Si veda anche sugli avvenimenti del 1859 la testimonianza del Dionisotti (Dionisotti 1864, p. 385).

19. Interessante è la ricostruzione che della fondazione della Biblioteca Civica ci ha lasciato il Dionisotti, il quale ricorda la vertenza che il Municipio ebbe con la Biblioteca Agnesiana nel 1851, circa la sua gestione e i nomi di vari donatori alla nuova istituzione civica (Dionisotti 1861, pp. 319 sgg.). Fra i documenti editi in questo volume i nn. 9, 11, 13, 169 e 189 contengono riferimenti diretti alla Biblioteca Civica.

20. Sulla Commissione e relativo regolamento si veda Sommo 1982, p. 191.

21 . L'attività di tutela svolta dall'Istituto di Belle Arti fu notevolmente precoce e permise lo stacco e il recupero di numerosi affreschi di scuola vercellese ora al Museo Borgogna (Sommo 1982, p. 224 nota 1; Berardi 1984; Rosso 1990).

22 . La Commissione giunse a promuovere vere campagne di scavo in Vercelli, i cui risultati non furono commisurati alle notevoli spese sostenute. Tuttavia tali iniziative, che ebbero il sostegno del P. Bruzza, costituiscono il segno di un lungimirante impegno comunale nella tutela del patrimonio archeologico e, se fossero proseguite, avrebbero evitato le future dispersioni e distruzioni. Certamente l'abbandono di un tale attivismo, una volta spento l'iniziale entusiasmo, si deve a ristrettezze economiche, ma anche a mancanza di sensibilità da parte degli amministratori. Si passerà così da una fase di attenzione anticipatrice al totale disinteresse, che ha purtroppo caratterizzato l'archeologia locale degli ultimi decenni (Cfr. Sommo 1982). Vari documenti editi in questo volume contengono riferimenti all'attività di ricerca della Commissione Archeologica Municipale.

23. I restauri di casa Alciati e del S. Andrea e il riallestimento del museo Leone, culminati nella mostra del 1939, sono frutto di un nuovo impegno conservativo e della presenza a Vercelli di Verzone e Viale. Sulla sistemazione delle raccolte anteriore alla mostra del 1939 si veda l'interessante opouscolo del Bendinelli s.d.

24. Sommo 1982, p. 198.

25. Dei nuovi allestimenti Viale curò una guida in cui sono descritte le collezioni esposte (Viale 1934).

26. Sommo 1982, p. 200.

27. Viale 1939


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